Disturbo Borderline di Personalità e accesso alle parti dissociate con l’ipnosi

Trascrizione di una seduta di psicoterapia con una giovane paziente ad alto funzionamento

Di seguito riporto la trascrizione sintetica di una seduta di ipnosi integrata con l’approccio sulle parti dell’io, svolta con una paziente con diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità ad alto funzionamento. Si tratta di una giovane donna con un elevato profilo intellettivo e fortemente orientata all’introspezione.

Quanto emerso nel corso della seduta rappresenta una descrizione affascinante e complessa dei meccanismi psichici che regolano il funzionamento mentale in conseguenza di vissuti traumatici. In particolare è possibile cogliere come il tentativo della psiche di difendere la coscienza dai contenuti dissociati, sia all’origine dei forti condizionamenti che limitano la vita della paziente in tutti i contesti. Allo stesso tempo la possibilità di portare luce e comprensione su tali meccanismi è la premessa per attivare un processo terapeutico di ampia portata.

La paziente lamenta il senso di vuoto, vissuti depressivi, difficoltà nelle relazioni interpersonali, in particolare quelle affettive in cui riconosce una sua attitudine “distruttiva”. Definisce il suo funzionamento in bianco e nero e l’essere caratterizzata nella sua identità da parti diverse che determinano una forte instabilità psicologica e sofferenza.

Ha intrapreso una relazione recentemente, dopo un lungo periodo in cui ha evitato contatti sociali per paura della propria instabilità.

All’inizio della seduta di cui viene riportato il contenuto, afferma di sentire come se si stesse preparando ad un tentativo di fuga dal ragazzo che frequenta.

“Mi sto disconnettendo in qualche modo. Ci siamo visti ieri, da una parte ero super contenta, dall’altra ero lì come un fantoccio, come se mi guardassi da fuori e mi vedessi a fingere qualcosa.

Più mi coinvolgo più l’altra parte tira (per prendere le distanze), per evitare che possa fare male; questa parte dice: – Più ti senti vulnerabile, più ti fai male. Se senti (emozioni, sensazioni) siamo di nuovo vive e vivere porta con sé dolore-.

Questa parte utilizza meccanismi per creare dubbi, senza veri motivi, per innescare il “colpo di stato”, per distaccarsi da lui. Io vorrei dire a questa parte di me di smetterla, di non fare cose che non hanno senso. Se la assecondassi scappando (da lui), riprenderei a stare nella mia voragine immensa o a stare a letto a oltranza, a cosa mi porterebbe?”.

La paziente afferma che per entrambe le parti la normalità è non fare niente, rimanere paralizzate, congelando tutto dentro e fuori; questa è la sua zona di confort da cui, però, lei vorrebbe uscire.

Chiedo quale sia la categoria opposta al NON FARE NIENTE, la paziente la identifica nel VIVERE.

Non fare niente per lei corrisponde a: sicurezza, nessuna responsabilità, non vivere, mancanza di vulnerabilità, controllo, sospensione dalla realtà, fallimento, vuoto.

Vivere è associato a: sentire sentimenti/emozioni, togliere spazio al vuoto, costruire, futuro, legami.

Si definisce stanca di questa continua guerra dentro, dell’alternanza tra vivere e non vivere:

“Forse dovrei smetterla di usare il tasto accendi/spegni e dovrei trovare un tasto di unione, come nei cartoni animati!”.

Le chiedo, inducendo una leggera trance, di entrare in contatto con le due modalità di funzionamento ma riferisce di percepire una resistenza da tutte le sue parti:

“Non hanno voglia di impegnarsi, di capire, di sforzarsi e di rendersi vulnerabili”.

Poi aggiunge: “Stanno proteggendo una parte di me vulnerabile. Mi trovo davanti ad una porta e ho come delle persone – anzi sembrano più ombre, sagome – sedute intorno: due per lato, io sono difronte alla porta. Non è una porta normale, non è ferma, è come se slittasse”.

Suggerisco di ringraziare le parti per la protezione che offrono a quella vulnerabile, e se è possibile cercare insieme un nuovo modo per proteggerla senza impedire di vivere.

“Stiamo discutendo! Ognuna pensa di gestire una cosa, sto spiegando loro di smetterla di credere questo!”

Chiedo se può spiegare cosa intende.

“È come se mi muovessi dentro una scatola di metallo con dei buchi nelle pareti dai quali entra l’acqua. Ognuna di loro cerca di tappare un settore, per evitare che entri l’acqua, il fatto è che quei buchi non possono essere tappati tutti! Sto cercando di far capire loro questo: è uno sforzo inutile perché ormai ci sono troppi buchi, l’acqua ha troppa forza e dentro la scatola continua a salire e prima o poi ci sommergerà”.

Intervengo: “Quindi come se avessero una visione limitata, errata della realtà?”.

“Sì, non si rendono conto che è ora di uscire dalla scatola, essere occupate a tappare i buchi non permette loro di capire che il problema è vivere in una scatola in mezzo al mare”.

Chiedo di far notare questo alle parti, di far notare il limite della loro azione.

“Sto accelerando il tempo, nella scatola entra sempre più acqua; cerco di far capire loro che a questo punto non potranno più salvarmi, anzi sono loro che stanno facendo qualcosa per distruggermi nel tentativo di proteggermi. Adesso io ho cambiato visione, ho capito che non può essere quella la nostra linea di azione”.

Intervengo per dire: “Forse loro non sanno che siete la stessa persona!”.

“Penso anche io che salvare me significa anche distruggere me! Forse sono io la resistenza nei loro confronti, le vedo staccate da me, riesco a capire che le ho create io, che ho chiesto io il loro aiuto ma non riesco a vederle tutte come buone e utili. Loro mi dicono che le ho chiamate io per proteggermi dallo stare male, dalla paura. Dietro alla porta c’è questo: i motivi, la spiegazione di questo stare male. Loro non sanno cosa c’è effettivamente dietro la porta, sanno solo che non devo entrare lì! Quando le ho create le ho avvertite che prima o poi avrei voluto forse entrare lì, le ho avvertite di non farmi entrare, di non ascoltare niente, di non farsi manipolare! Sicuramente ero piccola quando è successo. Capisco ora che quella bambina non potrà mai essere felice se continuiamo a non farle conoscere le cose e a tenerla in questa scatola. La bambina è rimasta la stessa bambina che ha paura. Non abbiamo cambiato assolutamente niente, abbiamo congelato questa sofferenza e ne abbiamo creato un’altra. Forse dovremmo contattare la bambina, però non so dov’è!”.

Intervengo dicendo che per questa volta l’avremmo lasciata tranquilla e che avremmo visto nella prossima occasione se fosse disposta a farsi contattare.

La sessione di lavoro termina e alla fine la paziente afferma: “Mi dispiace un sacco per la bambina! Avrei voluto essere lì con lei. Mentre nessuno si poteva accorgere della sua sofferenza, lei creava tutto questo pur di non sentirla. Chissà quanto ci ha messo a farlo”.

La pubblicazione avviene con il consenso e la supervisione del testo da parte della paziente.

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